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Raffaella Gremigni - Pisa

Emma era una bambina bellissima, appena nata. Era venuta alla luce tre giorni prima del previsto, generando meraviglia in chi la aiutò ad uscire dal grembo materno e in chi nel proprio grembo l’aveva cullata per nove mesi. La natura, mai era riuscita ad eguagliare un tale spettacolo. Nemmeno con il più nitido arcobaleno a perdita d’occhio, nè con un tramonto mozzafiato sul mare o con l’aurora boreale di Babbo Natale.

Quella luce, che la piccola aveva tanto atteso, trepidante, purtroppo non illuminò mai i suoi dolci occhi, azzurri, come un cielo che non avrebbero mai visto. Emma era nata cieca. Non conobbe mai il volto di chi l’aveva partorita, nè quello del fratellino, che all’età di 4 anni, aspettava esultante il momento fatidico di poter avere un nuovo compagno di gioco, come chi attendeva l’arrivo del nuovo anno.

I genitori di Emma viaggiarono in lungo e in largo in cerca di un miracolo che non arrivò mai. Poter donare alla figlia il senso della vita. Una vita che avrebbe avvolto nell’oscurità il suo piccolo grande mondo.

Emma era una bambina vivace, gioiosa e piena di curiosità. Ascoltava con attenzione ogni parola che udiva, ogni suono che sentiva. Posava le sue manine su qualsiasi oggetto le si presentasse davanti a sua insaputa; lo esplorava come se dovesse entrarne a far parte, diventando un tutt’uno e spingendo i restanti sensi che le erano stati concessi, ad attivarsi anche per quello di cui era stata privata.

Frequentava una scuola speciale, insieme a tanti bambini, che come lei, erano nati angeli erranti, divenuti fari luminosi per tutti, ad eccezione di loro stessi.

Gli anni passavano ed Emma cresceva, sempre più padrona del suo mondo e più consapevole che ne avrebbe fatto parte con tutto, ad eccezione degli occhi. Aveva imparato a immaginare i colori, toccando oggetti caldi o freddi oppure foglie vive o morte; integrandosi con la terra o con il mare, con la neve o con la sabbia. Il profumo di un fiore le suggeriva la tonalità dei suoi petali, e il sapore di un frutto, acerbo o succulento, le risvegliava un colore acceso o spento. Non era mai sazia di imparare cose nuove. Il suo mondo buio era così ricco di dettagli, di nuove scoperte, che ne faceva continua indigestione.

Un giorno, Emma disse alla mamma che la maestra quella mattina aveva spiegato l’origine della vita, l’universo, le galassie, le stelle e i pianeti. Aveva capito che erano tutti nomi di corpi raggiungibili solo con gli occhi, e alcuni nemmeno con quelli. Allora, chiese alla mamma se poteva descriverle come vedeva il sole, la luna e il cielo stellato, in modo che anche lei potesse capire le sensazioni che trasmettevano. Attesero la notte che, per l’occasione, si mostrò tersa e stellata, e uscirono in giardino. La mamma iniziò a parlare dell’infinita bellezza delle stelle luminose, del fascino della luna che periodicamente assumeva forme diverse e che diffondeva un bagliore, per impedire alle tenebre di occultare ogni cosa. Ma più raccontava e più capiva di non riuscire a descrivere alla sua bambina quella pace emanata da un cielo, che solo osservato, dilagava il suo magnetismo. Emma, tuttavia, non apparve triste, anzi palesò in quel momento la più bella espressione enigmatica, che le stelle stesse avrebbero potuto invidiare. Rimase per un po' in silenzio, pensierosa, come se cercasse di inserire in un suo archivio mentale, le informazioni ricevute da sua madre. Poi rivolgendosi a lei, le disse: “Mamma, non sono sicura di aver capito quello che stai provando di fronte alle immagini che mi hai descritto e che io non posso raggiungere in nessun modo, se non con la fantasia. Le mie braccia sono troppo corte per toccare il cielo, e il mio naso, per quanto allenato, non può odorare fino lassù, anche se le stelle emanassero il profumo più intenso del mondo. Inoltre il cielo e i suoi corpi sono così silenziosi che non riesco a percepirne il più piccolo suono”.

La madre provò una profonda tristezza, incolmabile, e insostenibile, anche di fronte allo splendido sorriso che sua figlia le regalò e che sempre riusciva a contagiare chiunque ne venisse travolto.

Dopo qualche ricerca, la mamma di Emma trovò un planetario per non vedenti, che decantava esperienze uniche per rendere partecipi dell’universo, del sistema solare e delle costellazioni, anche chi non aveva ricevuto il dono della vista. Il planetario era lontano dal paese in cui vivevano, ma nessuna distanza si sarebbe messa ulteriormente tra sua figlia e il suo desiderio di conoscere il mondo.

Decise di fare una sorpresa ad Emma e di non anticiparle né la destinazione, né il motivo di quella improvvisa partenza.

Quando giunsero al planetario, la mamma di Emma le disse soltanto che da lì in poi, avrebbe proseguito da sola un percorso speciale, affidata alle mani esperte di volontari e educatori scelti, e che lei l’avrebbe aspettata fino a quando non si fosse ritenuta soddisfatta. La baciò e lasciò che si facesse trasportare da quello che sperò potesse diventare il più bel viaggio cosmico della sua vita.

Perse la cognizione del tempo fino a quando vide riapparire Emma, accompagnata da un giovane ragazzo alto e sorridente, che dopo aver regalato alla piccola esploratrice un modellino di gomma del sistema solare, si congedò e si perse tra la folla.

Emma era raggiante, come le stelle di cui aveva tanto sentito parlare. Raccontò alla mamma di aver toccato Marte, un pianeta ancora tutto da svelare, di aver incontrato la luna, nella sua massima pienezza e con i suoi numerosi crateri, e di aver percepito l’incandescenza del sole, che un giorno lontanissimo avrebbe esaurito il suo calore, lasciando una grande incognita sul destino del mondo. Il cielo aveva la forma di una enorme cupola, al cui interno erano dislocate le stelle e le costellazioni, come fossero piccole palline di gomma. Era riuscita ad immaginare la loro luminosità in base a quanto fossero sporgenti, come se alcune le venissero incontro ed altre si nascondessero. Emma era così eccitata che continuò a parlare per ore; descrisse alla mamma di aver assistito al susseguirsi delle stagioni, al percorso del sole, alle eclissi lunari e solari. Si era così emozionata quando le avevano permesso di toccare alcuni meteoriti, simili a quello che forse, milioni di anni fa, fece estinguere tutti i dinosauri. Le raccontò anche, di aver partecipato a una specie di gioco con la fune, o almeno fu come Emma lo interpretò, dove insieme ad altri bambini disposero i pianeti che avevano scelto, per rappresentare in scala la loro distanza.

La mamma interruppe la figlia per chiederle quale pianeta avesse scelto. Emma rispose che avrebbe voluto dire Saturno, perché era circondato da una specie di ciambella, come quella che lei usava da piccola quando si immergeva nel mare, ma dato che era già stato detto da un altro bambino, decise per la Terra.

“In fin dei conti è la nostra casa, è il pianeta che ci dona la vita”, spiegò la piccola.

La mamma trattenne a fatica le lacrime e con gioia continuò ad ascoltare il fiume di parole che uscivano fluide e cariche di emozione dalla bocca di sua figlia.

Non potè fare a meno di notare che mentre Emma riviveva con la voce la magia di quell’esperienza, le brillavano gli occhi, nonostante fossero stati gli unici a rimanere estranei a quel vortice di fenomeni, che da sempre avevano affascinato l’uomo, spingendolo a raggiungere luoghi inimmaginabili.

Emma alla fine, si avvicinò all’orecchio della madre e le confidò un segreto.

Le disse: “Non è vero che l’Universo è silenzioso. I pianeti sono capaci di emettere suoni, solo che nessuno può sentirli, se non attraverso speciali sonde spaziali. Io li ho ascoltatiti e sono bellissimi. Sono suoni acuti e bassi allo stesso tempo, intermittenti e capaci di invadere tutti i sensi. E’ come se i corpi celesti parlassero tra loro. Non ti sembra meraviglioso mamma?”

La mamma di Emma non aveva mai sentito i suoni dei pianeti, né era a conoscenza della loro esistenza, ma fu immensamente grata a tutti coloro che, di quel meraviglioso Universo, erano riusciti a far splendere la stella più bella.