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Sulle alture di San Ciro,

la notte maestosa

si accompagna furtiva

ad una brezza impertinente,

che incute timore e

misurati cauti passi

all’uomo pregno

di spavalda sicumera e

spazza via così,

con lieve vigoria,

l’arsura e la calura

delle afose ore

dell’incendiato

giorno estivo.

Laggiù, come lontana eco,

tra cime tremolanti

di vegliardi patriarchi,

tra indefinite ombre,

un baluginio marmoreo

di luci e tenui bagliori

sussulta sinuoso

sull’assopita marina, che,

incredula all’odierno oblio,

muta sogna invano

il ribollire delle onde

al ritmare indomito

dei remi del legno fenicio.

E sulla mia testa,

il roteare immane

del concavo tetto,

denso di blu,

eterno di voci,

terso di pace,

tempestato di vivide

gemme a comporre

effimera bellezza

all’incommensurabile

senso della vita

che fugge, fugge

smaniosa e impalpabile,

equa e inesorabile.