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Giulio è disteso su una panchina, a pancia in su. Fissa le stelle per l’ultima volta e pensa che gli mancheranno molto. Ha gli occhi vinti dal freddo, dall’alcol, dalla vita: gli si stanno chiudendo per sempre.

“Spero di raggiungervi, amiche mie... volando su una freccia scoccata dal Sagittario, cavalcando in sella al Capricorno, tuffandomi nella Via Lattea. E mi auguro di navigare lontano, oltre l’ultimo confine di questo incommensurabile oceano” dice dentro di sé, mentre si sente scivolare in una voragine scura.

La sua cagnolina, Amélie, guaisce disperata. Sa che il suo padrone la sta abbandonando una volta per tutte.

D’intorno non c’è anima viva. Il parco, in questa fredda sera della vigilia di Natale, è vuoto come lo spazio siderale. È un (non) luogo isolato da tutto e da tutti. Alla stregua di una galassia lontana, sperduta chissà dove nell’universo. Distante anni luce dalle famiglie che festeggiano rintanate in casa; dal tintinnio dei brindisi; dalle persone sedute al ristorante; dalle auto che sfrecciano sulla tangenziale; dalle facce che si specchiano nelle vetrine del centro.

Giulio ne ha viste tante, di facce, nel corso degli anni. Le ha scrutate a distanza, come si fa con le stelle, dalla sua panchina-osservatorio. Anche lui, un tempo, aveva uno di quei volti rispettabili. Era un ricercatore di astronomia all’università, mica un barbone alcolizzato. E tanti anni fa non viveva certamente lì, ma in un bell’appartamento di un palazzo signorile con la sua famiglia. Al parco ci portava giusto sua figlia a giocare, ogni domenica mattina.

Poi, un infausto giorno di primavera, la sua vita cambiò per sempre.

Del resto esiste un limite di sopportazione del dolore, in ciascun essere umano, superato il quale non si sa cosa possa accadere. Allo stesso modo di ciò che capita a qualsiasi cosa oltrepassi il cosiddetto orizzonte degli eventi e finisca in un buco nero: potrebbe sparire per sempre, iniziare a risplendere in un differente universo, scivolare in un’altra dimensione, o chissà cos’altro. Nessuno lo sa di sicuro.

Nell’istante in cui a Giulio dissero che sua moglie e sua figlia di otto anni, erano state falciate a morte da un pirata della strada, lui esplose come una supernova. E, da quel momento, non si è mai più ricomposto, disperdendosi in mille pezzi dentro una sorta di vuoto cosmico. Vittima del caos, prima, e succube dell’entropia, poi.

Per venti, lunghissimi, anni, il cielo notturno gli ha ricordato chi era nella sua vita precedente. Con tutti quegli astri, costellazioni, galassie, pianeti, nebulose di cui, lui, conosce a memoria nomi e posizioni nella volta celeste. E adesso che sta morendo assiderato, si rende conto, più che mai, che l’infinita distanza tra il Giulio attuale e quello di un tempo, è la stessa che lo separa dalle stelle presenti nell’oscurità.

Amélie, nel frattempo, ha iniziato ad abbaiare: si oppone, con tutto il suo essere, all’ineluttabile forza gravitazionale del buco nero che sta risucchiando il suo amico. Gli morde il vecchio cappotto sdrucito, tirando come un’ossessa, in un ultimo disperato tentativo di salvarlo dalla sua triste fine.

“Ti voglio bene, amica mia, addio” sussurra l’uomo, ormai allo stremo.

Il parco si trova sopra una collinetta. Da lì, la città sembra quasi di toccarla, tanto è vicina. Tanto è lontana, mentre si appresta a festeggiare il Natale indossando una stucchevole quanto ammaliante parure di luci variopinte. Indifferente al dramma di Giulio. E a quello di molte altre persone sole, dimenticate, invisibili ma al contempo sovraesposte al punto da ferire lo sguardo. Tanto da spingere addirittura a distoglierlo.

Ci alziamo in volo. Osserviamo il parco da cinquanta metri d’altezza. Poi da cento. Da duecento metri. Saliamo ancora. Adesso, se guardiamo in basso, ci appare tutto così sfumato. Confuso. Non riusciamo più a distinguere la panchina, Giulio, Amélie, il parco stesso. Andiamo sempre più in alto. Non siamo in grado di riconoscere neanche la città. Saliamo ancora e ancora. Arriviamo nello spazio. La Terra ha le dimensioni di una biglia. Continuiamo ad allontanarci.

“Da qui il mondo sembra solo un pallido puntino azzurro” pensa Giulio.

Sorride.

Buio.